di Corinna De Cesare
All'università, mentre studiavo Hitchcock, Pina Bausch o Truffaut - ho fatto il Dams -, alle 14.45 di ogni pomeriggio, il videoregistratore di casa si accendeva in automatico (grazie al timer) per registrare le puntate di Uomini e donne, programma che andava in onda quando io ero in Facoltà.
Ho assistito alla nascita della parola "tronista" - do you know Giuseppe Lago? - e ho seguito in tv per anni la compagnia di giro di Maria De Filippi. Conoscevo tutti i nomi dei protagonisti a memoria, compresi quelli degli autori del programma televisivo pomeridiano.
Poi è stata la volta di Vero amore, nome della prima edizione dell'attuale Temptation Island - format importato dall'Olanda - per il quale si accendevano in casa forti dibattiti con il mio fidanzato di allora (avevo iniziato a convivere) che non si capacitava delle mie ossessioni televisive considerate universalmente trash. Studiavo giornalismo, guardavo Report e poi Temptation Island, che razza di problemi avevo?
A parte lui e la mia famiglia - che mi perculava -, il segreto era inconfessabile. Lo nascondevo persino ai miei amici di Università, tutti progressisti, aperti e di sinistra ma a cui raccoglievo la mascella dal pavimento tutte le volte che esprimevo un giudizio politico impegnato (del resto, ero femmina, bionda e portavo i tacchi).
Più libera invece mi sentivo nella comunità gay romana dei primi anni duemila dove Maria, Tina, Rosy, Paola erano il nostro "impero romano", oggetto di culto, di discussione - e risate - nella gay street al Colosseo o nei locali dove ci incontravamo. Per il resto, i programmi di Maria De Filippi rimanevano il mio guilty pleasure più inconfessabile, quando ancora non esisteva un inglesismo per definire qualcosa che ci piace ma di cui ci sentiamo in colpa.
«De Filippi è regina di un'audience medio-bassa: sciampiste dentro ed ex lettori di Susanna Tamaro» scriveva il critico televisivo Aldo Grasso sul Corriere della Sera. Citazione - classista - che ho ritrovato nel primo libro di Maria Cafagna Cattive maestre (Sperling & Kupfer, 2024). Era il 2006 e lessi quella frase - incazzandomi - sul giornale che abitualmente compravo mentre frequentavo la specialistica in Editoria e Scrittura.
Solo anni e anni dopo, libri letti e guilty pleasure custoditi segretamente per non essere giudicata e ridicolizzata, ho iniziato a decostruire e parlare liberamente di prodotti televisivi collettivamente considerati trash (che io invece amavo) senza minimamente preoccuparmi del giudizio altrui. "Maria io esco" - per intenderci - è stato il mio mantra secoli prima che diventasse la GIF che tutti conosciamo e se il nome Claudia Montanarini non ti dice niente, non potrai effettivamente capire l'entità di questa confessione.
Il punto però è un altro: i prodotti di intrattenimento che fanno parte dell'immaginario femminile o che hanno un pubblico tendenzialmente femminile (o gay), vengono spesso catalogati come di serie B. Oggi è Taylor Swift, ieri erano i Take That. Oggi è Barbie, ieri era Pretty Woman. Uomini e donne o Temptation Island non fanno eccezione. Come ha ben spiegato Carolina Capria in questo video, noi donne in particolare cresciamo con la convinzione di dover aderire a un immaginario altro/alto perché confessare di vedere o fruire di un determinato prodotto leggero, lede la nostra immagine e reputazione.
Non solo perché svela - l'insinuazione - la nostra superficialità (del resto, siamo donne!) ma anche perché esplicita le nostre origini immediatamente etichettate come non abbastanza borghesi e acculturate (di nuovo il classismo). I figli dei professionisti - lo ricorda Cafagna nel suo libro - non stavano le ore davanti alla tv commerciale come invece siamo stati noi, figli di operai, commercianti o casalinghe. Ma la tv è spesso - come il cinema - un gioco di specchi che racconta molto bene la società in cui viviamo, contraddizioni incluse. Senza considerare l'attrazione per i fenomeni di costume.
Dopo la tv per me, è stata la volta di Youtube con i tutorial di trucco - altro guilty pleasure mai confessato - insieme alle riviste femminili, gli smalti, i rossetti, la collezione dei cataloghi di alcuni brand ad alto tasso truzzagine (come dimenticare Onyx?), Un posto al sole, Matrimonio a prima vista, le compilation di Non è la Rai molto tempo prima della riabilitazione collettiva a cui abbiamo assistito.
Impensabile per molte persone che potessi ascoltare Ambra e Lucio Dalla, Pamela Petrarolo e Alanis Morrisette, studiare Karl R.Popper e guardare Uomini e donne. Ancora oggi raccolgo mascelle quando parlo di Ballando con le stelle ma mai tanto quando mi definisco autrice intellettuale femminista e ceo di thePeriod: lì è proprio l'Apocalisse, il Giudizio Universale (soprattutto da parte di colleghi giornalisti).
Provo un sacco di affetto per la me ventenne e trentenne costretta ad aderire a certi canoni per non essere etichettata e ne provo ancora oggi per le ragazze e le donne - molte meno spero - che si pongono gli stessi problemi senza ancora essere consapevoli dei tanti condizionamenti che ci impone - ancora ora - la società.
Oggi - da autrice e intellettuale femminista (ops) -, mi vengono rivolte le stesse e altre accuse (troppo poco o eccessivamente radicale a seconda dei punti di vista), soprattutto se i prodotti di intrattenimento di cui scriviamo qui o sui social - o i nostri riferimenti culturali - non sono abbastanza femministi o abbastanza alti (con tanto di annuncio di unfollow nei commenti: "pensavo che foste una pagina seria"). Troppo di nicchia o troppo pop.
Ma i piani di lettura - e di fruizione di un determinato prodotto - sono sempre diversi a seconda del bagaglio che ci portiamo sulle spalle, delle esperienze avute e dello spessore del nostro pensiero. Oltre al fatto che tutti, uomini e donne, abbiamo diritto di intrattenerci come meglio crediamo.
Le accuse di superficialità - guarda caso - sulla fruizione di alcuni prodotti di intrattenimento non toccano mai gli uomini etero che non hanno mai avuto bisogno di giustificarsi di particolari guilty pleasure (grazie sempre, Carolina). Per loro non esistono piaceri da confessare o tenere nascosti (se ce ne sono, battete un colpo) giacché tutto quello che amano è spesso condiviso, apprezzato, idolatrato, universalmente riconosciuto come "metafora della vita" (hai presente il calcio?).
Io ormai sono pacificata da ogni senso di colpa: continuo a rivedere le commedie romantiche che ci hanno rovinato la vita come Pretty Woman e Dirty Dancing, di recente mi sono appassionata a Bridgertone con un binge watching senza precedenti e ho aspettato tutta la settimana per vedere finalmente IERI SERA, la prima puntata di Temptation Island (ci torneremo). Pubblichiamo meme utilizzando Barbie (pronto? Polizia del femminismo?). Ho sul comodino Olympe de Gouges e penso ancora oggi che il lavoro dei sogni sia diventare autrice di Maria De Filippi.
«L'errore che potete evitare è fare esclusivamente ciò che ci si aspetta da voi e quello che gli altri decidono per voi» scrive Cafagna in Cattive Maestre riportando un bellissimo discorso di Paola Cortellesi. Cattiva maestra pure lei, come me, come noi.
Caporalato e colpevolizzazione dei consumatori
di Leoluca Armigero
«Se noi continuiamo a comprare dei barattoli da 400g di pomodori pelati a 70 centesimi, è chiaro che per fare un barattolo di pelati da 400g a 70 centesimi bisogna fare caporalato, perché altrimenti non si possono fare». Così Oscar Farinetti, patron di Eataly, ai microfoni di Metropolis (Repubblica). «Bisogna mangiare - ha aggiunto - la metà di cose che costano il doppio».
Ma se caliamo la frase di Farinetti nel paese reale, questa scena potrebbe diventare la sceneggiatura di un film che i critici farebbero fatica a classificare scegliendo fra commedia e drammatico, con la velleità politica di riflettere sui temi del classismo. Farinetti ha fornito una soluzione semplice al problema del caporalato, sì, ma per le persone abbienti. Su tutte le altre invece, queste parole si sono abbattute come un senso di colpa, per di più sadico, considerando che la corsa al prezzo più basso e lo studio incessante delle offerte sui depliànt è per molti uno sport olimpionico in cui rischiamo tutti, come azzurri, di aggiudicarci una coppa. Tanto più ora, con un’inflazione fino al 5,7% sui beni alimentari.
Ma in questi giorni, dopo la morte del bracciante Satnam Singh, Farinetti è stato in buona compagnia. In tanti infatti hanno spalmato le responsabilità di sfruttamento e schiavismo economico, sui consumatori. Sulla prima pagina del Corriere della Sera dello scorso 24 giugno è apparsa una vignetta di Emilio Giannelli: una signora, mentre fa la spesa, si sofferma davanti a dei pomodori in offerta; tutti nel supermercato sono bianchi. Sopra di loro però c’è una nuvoletta con una persona non bianca; le scritte confrontano la sua paga con il prezzo dei pomodori. Ma lui appare in una nuvoletta, l’unico nero, fuori dai luoghi del consumo, confinato in quelli della produzione. La sua storia individuale è il grande rimosso, finché non gli si stacca un braccio e muore.
«Se sull’etichetta della salsa di pomodoro ci fosse scritto questo (raccolto da un migrante che lavora 14 ore al giorno a 3,50€ l’ora), tu la compreresti?». Questo il post pubblicato da Will che voleva richiamare l’attenzione a una spesa responsabile. Peccato che a una iper-responsabilizzazione dei consumatori, tuttavia, corrisponde la deresponsabilizzazione di qualcun altro, ossia gli agenti economici più forti sul mercato: perché in questa catena che va dai campi alle tavole sparisce l’anello di chi paga i braccianti? Perché non ci si rivolge ai caporali, per esempio? O in generale alle aziende agricole che, sul lavoro delle braccia, accumulano profitto? Perché non riflettiamo sulla responsabilità politica degli stipendi da fame? O sulla totale assenza delle istituzioni, dal momento che Lovato (il padrone di Satnam Singh) era indagato per reati di caporalato da ben 5 anni? Dov’è il ministro Lollobrigida quando serve? A quest’ultima domanda - se le scuole non fossero in pausa estiva già da tempo - potremmo rispondere: a distribuire il latte ai bambini.
Farinetti, che nella stessa intervista si dice favorevole a un salario minimo di 9€ l’ora, spende parole tutt’altro che gentili per gli assassini del bracciante 31enne per cui in queste ore tutti esprimono umana pietà, da morto. Ma da vivo? A cosa servono questi moniti, se rivolti per la maggior parte a persone che non dispongono realmente della libertà di scelta nel fare la spesa? È la spesa etica un privilegio, nei fatti? Assolutamente sì.
Quello che talvolta facciamo fatica a vedere è che siamo, in maniera diversa, tutti alla base di una stessa piramide che è la società capitalistica. Le persone migranti e razzializzate sono ancora un po’ più in basso di chi è semplicemente povero e almeno ha dalla sua una cittadinanza o un’egemonia culturale che lo rassicura, lo fa sentire protagonista in quanto bianco, specie se uomo, abile, cis-etero, etc. Questo talvolta appanna lo sguardo, alleggerisce il peso di quel vertice che invece insiste sul nostro lavoro e sul nostro tempo, per tutta la vita, che condiziona le nostre abitudini in base alle proprie - che è ricco a scapito di chi è povero -.
Prestare attenzione a quello che compriamo, nei limiti delle nostre possibilità, non rimuove i limiti e non accresce le possibilità. Può aiutare - e ci viene raccontato come parte consistente del problema - ma non è che una parte residuale di un problema più ampio. Stiamo cominciando a cogliere dei nessi, stiamo lentamente accrescendo la nostra consapevolezza anche verso il classismo, dopo averlo fatto con tutte le altre forme di discriminazione.
Stiamo cominciando a parlarne apertamente perché stiamo a poco a poco superando quella strana specie di vergogna che rendeva le relazioni di potere economico un tabù, che ci impediva di parlarne, che ci induceva a scimmiottare i ricchi per sentirci meno sbagliati in quanto poveri. In questo scenario, la spesa consapevole limiterà la spinta verso il basso che noi, schiacciati nel mezzo, subiamo a nostra volta. Ma non produrrà l’unica cosa che è necessario fare: un moto d’orgoglio che inverta la direzione, che cambi il paradigma e che comprima i lati, fino a farli esplodere.
Latte a colazione
di Nazarena Gianferrari
Latte e biscotti, la colazione casalinga italiana per eccellenza. Almeno una volta nella vita tutti noi abbiamo iniziato la giornata bevendo una tazza di latte caldo; oggi la nuova campagna di educazione alimentare del Ministero dell’Agricoltura si chiama latte nelle scuole ed è indirizzata proprio a favorire il consumo di latte nelle scuole primarie. La cifra stanziata dal Ministero per permettere ai produttori di latte di promuoverne il consumo per l’anno 2024 è di 6 milioni di euro.
Ma da dove viene davvero il latte? La mucca Lola per chi fa il latte? Spoiler: non per noi e nemmeno per i nostri figli. Le mucche sono mammiferi che producono una tipologia di latte specifica per i cuccioli della propria specie, i vitelli. Noi umani siamo l’unica specie vivente che beve latte di altre specie da adulta. Qui potrebbe pure finire la trattazione, ma invece abbiamo deciso di ripercorrere la filiera, perché in quel famoso spot anni 90 il filo dell’alta qualità non ci racconta nessuna verità su questo prodotto così tanto blasonato.
La mucca non fa il latte, produce il latte dopo aver partorito esattamente come succede alle nostre madri umane. Il latte è l’alimento del vitello ma negli allevamenti il vitello non ne berrà nemmeno una goccia perché verrà completamente destinato al consumo umano. Il vitello infatti, subito dopo il parto, viene strappato con sofferenza alla madre e recluso in piccoli box in modo che i muscoli non si formino e la carne rimanga morbida e bianca come piace ai consumatori; la maggior parte dei vitelli sono infatti anemici e vengono alimentati con un surrogato del latte.
I cuccioli maschi vengono fatti ingrassare fino ai due anni e poi inviati al mattatoio. Le cucciole femmine invece intraprenderanno la fortunata carriera della madre: macchine di produzione del latte per colazioni umane. Le mucche da latte vengono inseminate artificialmente anche 4 volte nei primi cinque anni di età e dopo il parto vengono munte fino a 30 litri di latte a giorno. Quando la produttività cala, vengono inviate al macello e rimpiazzate con altre più giovani, difatti una mucca in natura ha un’aspettativa di vita di 40 anni ma negli allevamenti si riduce a 6 anni.
I vitellini sono costretti a rimanere isolati nei box anche per otto settimane, è impedito loro di socializzare e giocare; è stato recentemente pubblicato un parere dell’autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA) in cui si consiglia, per il benessere animale, di evitare l’isolamento alloggiandoli in piccoli gruppi per evitare lo stress da distacco.
In natura le mucche formano legami duraturi con i propri figli, la mandria è un sistema matriarcale in cui l’affetto materno è collante sociale, gli odori rimangono impressi nella memoria e fanno si che gli individui si riconoscano reciprocamente. La separazione forzata del vitello invece crea una sofferenza e uno stress tale da far cadere in una depressione profonda la madre che cercherà, chiamerà e piangerà per giorni il piccolo sequestrato. E mentre questo succede, noi alziamo le spalle e ci preoccupiamo del numero di litri di latte che possiamo arraffare, con impianti di mungitura all’avanguardia e sensori che permettono addirittura di capire quanto latte produce ogni Lola sfruttata.
Per prevenire mastiti e infezioni batteriche gli impianti di mungitura vengono lavati dopo ogni sessione, in una stalla di medie dimensioni sono necessari circa 2 mila litri al giorno di acqua e disinfettanti per la pulizia dei 26 mila impianti censiti dal Ministero della Salute nel 2020. Possiamo perciò sostenere che il nostro latte costa circa 21 miliardi di litri di acqua all’anno solo per la pulizia dell’attrezzatura. Se ogni giorno decidiamo di bere ½ litro di latte, salta facilmente all’occhio come chiudere l’acqua del rubinetto mentre ci si lava i denti – nobile azione – influisce poco alla lotta contro lo spreco di questo importante elemento.
Ma è davvero necessario consumare latte? No, non è un alimento indispensabile alla salute umana. Dagli anni '30 al fascismo, il marketing mirato al business dell’industria e la ricerca scientifica altrettanto allineata hanno consolidato questa credenza portando la famosa tazza da 250 ml di latte sulle tavole degli italiani, persino al Sud dove non era abitualmente consumato. Calcio, vitamine D, B12, e iodio sono i micronutrienti più citati quando si parla dell’importanza del latte.
In verità il latte commerciale non contiene naturalmente i nutrienti citati, ma per fortificazione del mangime delle mucche. In condizioni naturali, ovvero quando la mucca bruca l’erba e i fiori, il latte ha una variabilità di micronutrienti molto elevata in base al terreno e alla stagione. Attualmente quasi il 98% degli allevamenti di mucche da latte sono intensivi, gli animali non pascolano ma vengono nutriti a mangimi standardizzati addizionati di vitamine, minerali, grassi e altro per ottenere un latte spaventosamente standardizzato e uguale ovunque venga raccolto.
E le proteine? Le proteine si trovano ovunque nel mondo vegetale, il latte di soia ne contiene esattamente la stessa percentuale di un latte parzialmente scremato. Non è quindi forse più utile fortificare le alternative vegetali che sono più sostenibili e non implicano sofferenza e sfruttamento animale? Un’alternativa molto economica: lasciare 100gr di fiocchi di avena in acqua per 30 minuti, scolare e frullare insieme a 800ml di acqua, filtrare e conservare in frigorifero in bottiglia di vetro.
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