Il mistero di Tutankhamon – Cap. 2

Il mistero di Tutankhamon – Cap. 2

Jul 22, 2022

Il treno che mi porta fuori Londra non è così affollato stasera.

Ci sono i pendolari, due o tre facce che credo di riconoscere perché facciamo questo stesso tragitto tutti i santi giorni, e qualche studente chiassoso che rientra a casa con il viso stanco e l’espressione sconvolta.  Non ci potrebbero essere persone più diverse tra quelle che mi circondano, ma tutte, nessuna esclusa – a parte me – stanno facendo la stessa identica cosa: scrollano i social per vedere i video della mummia.

Serro la presa sul libro e mi rintano nel mondo distopico creato dall’autore mentre in sottofondo restano i gemiti e le risatine incredule degli altri passeggeri.

La visita al museo non è andata come speravo. Anzi, è andata più male del previsto.

Jim è stato esaustivo, convinto che apparirà nei prossimi ringraziamenti per un libro che, al momento, non credo scriverò mai. Perché la mummia risvegliatasi ieri potrebbe non essere chi abbiamo pensato.

E certi errori noi non li commettiamo. Io non li posso commettere, non con il programma di riabilitazione in fase sperimentale e gli occhi della famiglia attenti a scorgere i risultati miracolosi che ho promesso. Che ho visto, almeno in chi ho aiutato da sola fino a dieci giorni fa.

Non posso giocarmi la reputazione al primo caso ufficiale di A.P.P.. Che acronimo cretino, ma con Jenny che continua a usarlo invece di Assistenza Psicologica Paranormale finisco anche io con l’imitarla. A.P.P. … Se non scopro chi è la mummia ospitata nella camera beige anche l’acronimo finirà nel cestino, non solo il programma.

La fermata di Sevenoaks appare sul display, la voce che la annuncia con un trillo mentre già mi alzo e preparo davanti alle porte per uscire. Manca ancora qualche minuto, abbastanza perché l’occhio mi scivoli sul cellulare del tipo seduto qui accanto. Non c’è audio, per fortuna, ma si vede alla perfezione la sagoma che sguscia fuori dalla buca nel terreno, la sabbia che scorre sulle bende penzolanti e sulla carne grigia che si intravede al di sotto.

Quella è la vera mummia, dannazione. Credevo avessero cancellato tutti i filmati originali per sostituirli con i nostri falsi. Invece no. Anton mi sente, appena metto piede in casa.

Sbuffo, e lo faccio forte, un suono che vuole attirare l’attenzione dell’uomo. Ci riesce, due occhi castani che scivolano su di me mentre il treno inizia a rallentare. Ho poco tempo, per questo una mano scivola nella tasca della borsa e si stringe attorno al piccolo pulsante che porto sempre con me, la sagoma tonda che mi sfrega il polpastrello nell’istante in cui mi stampo sulla faccia un mezzo sorriso infastidito.

«Si vede lontano un miglio che è una farsa.» Il commento mi scivola tra le labbra, facile e veloce, uno specchietto per le allodole che fa il suo dovere.

L’uomo stringe lo sguardo, per decifrare la ragione del mio disinteresse per qualunque cosa ci sia sullo schermo del suo smartphone, e fa passare le pupille su tutta la mia persona, una radiografia completa che lo porta a raddrizzare la schiena.

«Tu dici?»

«Oh, sì» confermo e premo il tasto.

Con la coda dell’occhio vedo il cellulare diventare nero, lo schermo spento senza possibilità di recuperare qualunque cosa contenesse. Un po’ dovrebbe dispiacermi, ma… No, la sicurezza del nostro operato e degli ospiti viene prima di chiunque sconosciuto sulla metro. Quando il proprietario si accorge di cosa è successo sono già sulla banchina, le porte del treno che risucchiano la sua imprecazione in uno swoosh sordo.

Ah, c’è sempre qualcosa da fare. Mi incammino verso l’uscita con la certezza che non riuscirò mai ad andare in vacanza alle Maldive come mi riprometto da un paio d’anni. E recuperare il cellulare per accenderlo me lo ricorda ancor di più. Ho ottantatré chiamate perse.

Ottantatré, per la miseria.

Per non parlare dei messaggi, dove il badge rosso di notifica segna un poco incoraggiante 99+. Muoio.

Scorro i primi, tra un Carmen, chiamami di zio Gus e un Tesoro, rispondi allo zio di mia mamma, che diventano sempre pressanti con il passare delle ore. Ce n’è uno di Anton, le emoji di un mostro e di un paio di occhi che mi lasciano perplessa, e uno anche di Jenny, che è— Un audio di due minuti? No, non ce la posso fare.

Arrivo nel parcheggio e vedo subito l’elegante berlina nera che mi attende tra taxi e auto in sosta. C’è anche Oarth, accanto alla portiera posteriore e tutto impettito nella sua posa rigida. Ha la visiera del cappello calata sugli occhi, un piccolo stratagemma per nascondere le iridi gialle fluorescenti, mentre la linea dritta della bocca si apre di un soffio.

«Missss Carmen» mi saluta, le s strascicate e lunghe, mentre un guizzo repentino del labbro non riesce a nascondere la lingua biforcuta che saetta a destra e sinistra.

«Solo Carmen, Oarth. Non c’è bisogno di tutta questa formalità, e lo sai.» Lo ringrazio con un cenno della testa per avermi aperto la portiera, ma ancora non salgo. «Com’è andata a casa, oggi?»

«Sssono tutti in fermento, misss.» Incrocia il mio sguardo, una punta di divertimento nelle iridi oblunghe perché più gli dico di smettere più lui si fa in quattro per continuare. «E ssssi chiedono perché non abbiate rissssposssto al telefono.»

«Uff.» Sbuffo con mezzo sorriso infastidito. «Tutti in ansia adesso, mentre ieri sera nessuno che sia scattato in tempo.»

«È ssssuccessso qualcosa, missss. Il nuovo osssspite ha impegnato a lungo il tempo di ssssuo zio.»

«Sai perché?»

Anche se Oarth si comporta da autista, da dipendente, è stato anche lui ospite della casa. Certo, è stato al tempo dei miei nonni e da allora è rimasto a vivere nella tenuta. Dice di non sentirsi di famiglia, però lo è, in un modo singolare.

«Meglio sssse andiamo, misss.»

Accetto il suo velato invito a salire in auto, la portiera che si chiude un istante dopo. Brutto segno, rifletto, mentre Oarth fa il giro della macchina, perché sa cosa è successo ma non ne può parlare qui.

I suoi occhi gialli brillano nello specchietto retrovisore quando prende posto al volante, il viso ancora liscio come se avesse vent’anni e non gli almeno centocinquanta che siamo riusciti a datare grazie alle sue mute. La fortuna di essere un naga, immagino.

«Com’è andata la sssua giornata, invece?» Si stacca dal marciapiede, la guida fluida e tranquilla che mi porta ad appoggiare la schiena al sedile e a rilassarmi. «Tutto bene con Ssssir Desssmore?»

«Bene. Jim mi ha fornito molte informazioni utili sull’identità e lo stile di vita di Tutankhamon.» Gli occhi mi scivolano fuori dal finestrino, a seguire le strade di Sevenoaks e i suoi palazzi piccoli e uguali. «Ma il nostro ospite potrebbe non essere chi pensiamo sia.»

«Missss?»

«Potrei aver sbagliato mummia, Oarth.»

Il sibilo che segue la mia confessione mi strappa un vero sorriso, perché assomiglia a un diniego misto a un ordine a guardarlo. E non mi sorprende l’occhiata ferma che mi rivolge attraverso il retrovisore.

«Misss, chiunque sssia il nossstro ossspite, sssono certo che sssaprete aiutarlo al meglio. Lo avete sssempre fatto.»

«Grazie.» Annuisce e la linea dritta quasi priva di labbra si apre a qualcosa che ricorda un sorriso. «Se sopravvivo alla lavata di capo della famiglia.»

«Vedrete che andrà bene, missss.»

Restiamo in silenzio per il resto del breve tragitto che ci separa dalla vasta tenuta di famiglia. Sevenoaks Manor inizia qualche miglio dopo la città che porta il suo nome e occupa una larga parte della campagna circostante. Il cancello all’ingresso della proprietà è già del tutto aperto quando lo raggiungiamo, scivolando oltre la guardiola con un breve cenno anche alla guardia. Bert avrà cent’anni, minimo, ma se non lo saluto finisce per ricordarmelo ogni volta che mi vede. E accade spesso.

La casa padronale emerge piano all’orizzonte, dispersa in mezzo al grande parco, con tanto di lago annesso alla proprietà e riserva di caccia. Uno sproposito di spazio, che adesso è a disposizione più degli ospiti che della famiglia. Giustamente.

Ce ne sono alcuni a passeggio lungo il sentiero che costeggia il viale d’ingresso principale, tutti a godersi la natura e gli scorci che conosco a memoria. Eppure non mi stanco mai dello spettacolo che si gode nel raggiungere la grande casa, con il suo viale e la curva che costringe a fare per seguire la linea della grande fontana posta davanti alla facciata, la statua della donna che sorregge l’urna da cui sgorga l’acqua della fontana.

Pandora e il suo vaso.

La mia bis – bis un’infinità di volte – nonna, colei che per prima ha preso in carico tutto ciò che è fuoriuscito dallo scrigno che Zeus le ha consegnato. E senza la clausola del non aprire. All’epoca i mali già circolavano per il mondo, insieme a un numero non ben precisato di altre creature, quindi non ha dovuto aprirlo per scatenare un putiferio. Doveva aprirlo per rimetterlo in ordine.

Adesso di lei e del vaso resta solo questa statua. Letteralmente.

Pietrificata da una gorgone, una storia che tramandiamo in famiglia da secoli. E che custodiamo con estrema attenzione.

«Grazie, Oarth» mormoro, lo sguardo fisso sulla porta d’ingresso, dove mi attende la mamma, «faccio da sola con la portiera.»

«Sssicura, misss?»

Le s sibilano scetticismo e anche io mi sento così. Tutte le chiamate e i messaggi non credo portino a qualcosa di buono. Pazienza. Mia la famiglia, mie le gioie e i dolori. Soprattutto i dolori.

«Sicura.»

Ma mi faccio mancare un’ultima occhiata alla statua mentre scendo dall’auto.

Nonna Pandora, ti prego, aiutami tu.

«Si può sapere perché hai spento il cellulare?»

Ecco, anche stavolta devo cavarmela da me.

Grazie, Pandora. Grazie infinite.

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